“Posso prenotare un tavolo per sei persone alle 21:00?” È incredibile come una sola frase possa rendere quasi tangibile una mancanza, possa farsi testimonianza di tempi andati che non sappiamo se e quando torneranno. Una frase usata e perfino abusata fino a ieri, oggi si è svuotata di significato, trasformata in un’utopia. Svuotata, come le sale di ristoranti, bar, pub e pizzerie che da quasi un anno non ospitano più nessuno, se non per una piccola pausa estiva.

Molte attività hanno chiuso i battenti l’8 marzo 2020 e non li hanno più riaperti. Si è passati da vedere sulle serrande cartelli con su scritto “ce la faremo” a leggere pochi mesi dopo  “vendesi attività”.

Dopo il primo lockdown totale, circa il 7% delle attività di ristorazione non ha più aperto. Quelle che lo hanno fatto, hanno subito dei drastici cali di fatturato già nei primi mesi seguenti alla riapertura: a pesare, infatti, sulle tasche dei ristoratori,  sono state le modalità di riapertura. Il distanziamento interpersonale di 2m ha portato ad una riduzione del numero dei posti a sedere; notevole è stato poi l’impatto che l’acquisto di pannelli in plexiglass, detergenti e dispositivi igienizzanti ha avuto sui conti degli imprenditori.

Durante il periodo di chiusura, le uniche modalità che hanno permesso ai ristoratori di rimanere a contatto con i propri clienti sono state l’asporto ed il delivery. In tantissimi si sono dovuti reinventare, puntando ad una rimodulazione di orari e linguaggi, approdando sul web. Scorrere le storie in evidenza su instagram e facebook è diventato un po’ il nuovo modo di sfogliare il menu. I ristoratori si sono trovati a ricevere ordini da whatsapp, messenger e direct.

Ma in molti non hanno retto il cambio di passo. Il cambio di orari e dello stile di vita di tutti noi, nella seconda fase di lockdown – quella delle zone a colori –  ha dato un’ulteriore batosta a tanti imprenditori.

Smart working vuol dire meno persone che vanno a lavoro in ufficio e che – passando – prendono un caffé per iniziare col piede giusto la giornata; così come anche mangiare fuori per non tornare a casa nella pausa pranzo. Ora, di casa, non si esce più. 

Chiusura alle 18:00 di tutte le attività vuol dire mandare a casa una buona fetta della popolazione che proprio a quell’ora si dava appuntamento a quel bar per fare aperitivo. Per non parlare poi del coprifuoco alle 22:00, che ha messo letteralmente in ginocchio le attività che lavoravano maggiormente con le cene.

A tutto ciò si aggiunge l’esasperazione a cui sono stati condotti proprietari di diversi tipi di attività, non solo nella ristorazione, causata dai continui cambi di programmi: “ok, puoi aprire”, “no, aspetta, non c’è ancora il via libera ufficiale”, “ok, puoi tenere aperto ma solo per determinati reparti”. In molti si sono svegliati una mattina pensando di poter lavorare il giorno dopo e sono andati a dormire sapendo di dover di nuovo chiudere, con tutti i costi correlati a questo andirivieni: sanificazione straordinaria, acquisti di derrate, prenotazioni.

Sussidi ed aiuti del governo hanno solo tamponato l’emergenza, ma la gente in cassa integrazione c’è stata, il senso di vuoto e frustrazione lo ha provato e le spese le ha dovute affrontare. La situazione è critica e, a causa delle nuove varianti del virus, la paura è quella di rivivere in loop la situazione in cui ci siamo trovati esattamente un anno fa. 

Solo l’aiuto e la responsabilizzazione di tutti noi a rispettare con dedizione le normative anti-covid ed il lavoro di quanti vivono per regalarci momenti di svago con le dovute attenzioni e precauzioni, potrà consentirci di tornare alla vita di tutti i giorni.