Riapriamo gli stadi ma non teatri né live”: queste poche parole della canzone “Mai dire mai” che Willie Peyote ha portato alla 71ª edizione del “Festival di Sanremo” e con cui ha vinto anche il “Premio Mia Martini”, racchiudono la situazione che teatri e sale da concerto si sono trovati a vivere in quest’anno appena trascorso, segnato dalla pandemia di covid 19.

Da ben un anno, infatti, questi luoghi di cultura hanno chiuso i battenti e, tranne qualche piccola eccezione, non li hanno più riaperti.

La cultura, in tutte le sue declinazioni, in Italia non merita di vivere. D’altronde, i saggi latini lo dicevano già: “Carmina non dant panem”, la poesia non dà il pane; e quanto successo quest’anno non è che la dimostrazione tangibile dei tagli ai fondi effettuati ai danni dei lavoratori dello spettacolo fino ad ora.

Dai posti di lavoro a quelli sacri, passando per quelli scolastici e sportivi, tutti i settori sono andati avanti, con le dovute accortezze. Ma teatri e cinema non hanno potuto riaprire e, francamente, non se ne capisce proprio il perché, visto che, proprio in virtù della loro stessa natura (posti a sedere, entrate controllate e ricambi d’aria costanti) potrebbero essere tra i posti più sicuri al mondo per non far circolare il virus, molto di più sicuramente rispetto a centri commerciali e mezzi pubblici.

“Sono sospesi gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto”, recita il Dpcm. Una piccola speranza era stata data loro per il 27 marzo, data in cui sarebbe stato possibile riaprire in zona gialla. Peccato che, da qualche settimana, il colore giallo sia completamente sparito dalla nostra cartina. 

Oltre a togliere momenti di gioia, cultura e condivisione a tutti noi, queste chiusure significano mancanza di introiti per uno dei più rilevanti settori produttivi italiani e mancanza di stipendi per intere famiglie che attorno a quel mondo mangiano.

A nulla è servito che il 23 febbraio, ad un anno esatto dalla chiusura, i lavoratori dello spettacolo siano scesi in piazza per far sentire la propria voce, per richiedere i sussidi che tutti gli altri settori stanno già ricevendo; a nulla è servito, nella stessa data, accendere le luci di tutti i teatri d’Italia contemporaneamente; a nulla, purtroppo, serviranno gli appelli lanciati da musicisti e attori dal palco dell’Ariston e la protesta silenziosa dei simboli “stop & play” disegnati sulla mano o cuciti sugli indumenti di cantanti e musicisti, ancora una volta a Sanremo 2021. Un segno che rimanda all’ iniziativa ‘I diritti sono uno spettacolo, non mettiamoli in pausa’, appoggiata da “Scena Unita”, un fondo istituito per i lavoratori dello spettacolo. 

Certo il Teatro Ariston ha aperto, “come segno di ripartenza per la musica italiana”, perché gli altri no? Perché in quel caso la posta in gioco era troppo importante, ma i piccoli teatri (che sono ben il 70% della realtà nazionale) non sono, a quanto pare, così importanti.

In queste condizioni, infatti, nessun tempio dello spettacolo potrebbe riaprire, non senza sussidi adeguati: si può sanificare tutto, certo, ma come può una sala da mille posti a sedere sostenersi, pagare i dipendenti, le tournée, con tali limitazioni di spettatori? E poi, stando a questi provvedimenti, come si fa a realizzare uno spettacolo in prima serata, quello più frequentato? Si dovrebbe tirar giù il sipario a metà del primo atto per mandare tutti a casa prima del coprifuoco?

La situazione è disperata. Solo una forte presa di coscienza e voglia di cambiare le cose potrebbero far ripartire questo settore ormai allo stremo, cercando nuove soluzioni: tamponi agli ingressi, posizioni distanziate, spettacoli ad orari scaglionati e protocolli ragionati che permetterebbero all’arte, alla cultura, allo spettacolo di farci tornare a sognare come hanno sempre fatto.